Una tendenza globale
Great resignation, o big quit: così è stato chiamato il trend osservato inizialmente negli USA ed ora, valicato l’oceano, anche in Europa ed Italia. Si tratta della tendenza a licenziarsi o lasciare un lavoro insoddisfacente per cercarne un altro, anche se non più remunerativo dal punto di vista economico. Basta che consenta una migliore qualità di vita.
L’esperienza dello smart working, forzato dall’emergenza sanitaria, ha fatto prendere coscienza a molti professionisti di quanto poco tempo avessero a disposizione da dedicare a se stessi, agli affetti e ad interessi diversi dal lavoro.
Molti adesso preferiscono abbandonare il proprio lavoro piuttosto che rientrare in vecchie routine lavorative, da cui si sono scoperti soffocati.
Le cifre della great resignation in Italia
La fonte più attendibile ed aggiornata in merito alle dinamiche nazionali del lavoro sono le Note trimestrali sulle comunicazioni obbligatorie periodicamente pubblicate dal Ministero del Lavoro.
Il secondo trimestre 2021 mostra un aumento del 37% delle dimissioni rispetto ai primi tre mesi dell’anno. Rispetto allo stesso periodo del 2020 l’aumento è dell’85% e del 10% con riferimento al 2019. Quasi 500 mila licenziamenti volontari, 3/5 uomini, il resto donne.
Questi numeri sono significativi, ma è ancora presto per capire se la great resignation italiana è una tendenza in divenire o una contingenza occasionale, dovuta al ritorno al lavoro in presenza negli uffici e nelle sedi produttive.
Tuttavia uno studio dell’Institute for Business Value (IBV) di IBM ha evidenziato quali sono le principali motivazioni che portano al big quit. Un terzo del campione (14.000 lavoratori in tutto il mondo) riferisce di desiderare meno vincoli lavorativi, con una maggior libertà di organizzazione della propria attività. Un po’ meno di un altro terzo cerca un lavoro più centrato sulle proprie qualifiche e più appagante, anche non solo dal punto di vista economico.
Circa i motivi per non dimettersi, gli intervistati hanno indicato la possibilità di avere un equilibrio tra la vita privata e quella lavorativa e, subito dopo, avere prospettive concrete di carriera e progressione professionale.
L’immobiliare come antidoto al big quit?
Quale tipo di professione consente di mettere insieme tutti i desideri e le aspirazioni manifestate dai transfughi del lavoro tossico? L’agente immobiliare.
Senza dubbio la professione immobiliare richiede una vasta multidisciplinarità, professionalità ed impegno. Per questo motivo nessuno, quale che sia la sua formazione e precedente esperienza lavorativa può sentirsi escluso dalla possibilità di entrare a farne parte. Ogni competenza pregressa può divenire una preziosa peculiarità, integrata con la formazione necessaria a divenire un professionista nel mercato immobiliare.
L’agente ha libertà organizzativa anche quando inserito in un team di agenzia, dove trova supporto, stimoli e confronto. Le attività sono variegate e stimolanti. Oggi avrai una visita ad un appartamento con dei clienti, domani uno studio di mercato, il giorno dopo un incontro di formazione, un accesso per una perizia, un rogito.
Il mercato immobiliare non ha vissuto sostanziali flessioni nello scorso biennio ed anzi continua ad essere vivace e frizzante. Sicuramente può essere considerato un porto sicuro di approdo per chi ha scelto la great resignation.
Una volta formato, le possibilità di carriera e profitto, dipendono solo dall’impegno e dalla capacità di mettersi in gioco. Non conta l’età, non conta il passato, conta solo la serenità di aver trovato un luogo di lavoro che non ti costringerà più ad una altra dimissione, per esaurimento dell’entusiasmo e degli orizzonti, ma ad una nuova stimolante riprogettazione del futuro!
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